lunedì 12 marzo 2012

El Dia de la Mujer


L’otto marzo, la festa delle donne. Mi è parso strano festeggiarlo anche dall’altra parte del mondo, forse non avevo compreso bene l’aggettivo “internazionale” che questa festa possiede. 


Grazie a Marina (compagna di SCV) siamo venute a conoscenza di una marcia e la mattina abbiamo realizzato qualche cartellone nel suo ufficio. Dopo la messa (che sembra essere stata animata da una frizzante omelia No Conga), fuori dalla chiesa principale che si trova in Plaza des Armas, si sono radunate donne con diversi striscioni, alcuni cartelli e palloncini. 


Abbiamo potuto vedere donne e uomini di diverse associazioni, tra le quali le organizzatrici: la Mesa de la Mujer (che riunisce diverse organizzazioni) e il governo regionale di Cajamarca.


Era presente anche la banda musicale di un collegio femminile. Nel corteo stavamo proprio dietro le trombettiste, gli spartiti sulla schiena delle compagne davanti, che suonavano insieme e si sgomitavano quando dovevano iniziare, sghignazzavano quando se ne dimenticavano e si davano il cinque quando terminavano il pezzo.


Con Jennifer portavamo lo striscione di Warmayllu, che rappresentavamo in qualità di uniche presenti. Lo tenevamo con una mano e con l’altra scattavamo tantissime foto, soprattutto alle persone che uscivano dalle tiendite o si affacciavano ai balconi per vederci passare.


Ricordo una donna che sorridendo ha incrociato le braccia davanti al petto, toccandosi con le mani le spalle e dondolandosi un po’. Era come se ci dicesse:  “grazie per quello che state facendo”, “vi abbraccio tutte teneramente”.

Il corteo è terminato all’interno della municipalità, dove, dopo il discorso del sindaco, del presidente regionale e di una poetessa, è avvenuta la premiazione di donne cajamarquine, tra le quali un’anzianissima ostetrica campesina...chissà quante centinaia di bimbetti andini sono nati tra le sue mani, che hanno viaggiato per tanti anni di villaggio in villaggio.


Una delle problematiche più scottanti del territorio Cajamarquino riguarda la salute materna. Nella regione di Cajamarca (che conta circa 1 milione e 300mila abitanti), le morti per parto sono state 9 dall’inizio dell’anno (siamo solo a metà marzo!). Pensiamo che nel 2008 in tutta Itlaia (61 milioni di abitanti) i decessi per parto sono stati 8 (fonte: vita che nasce). La maggior parte di queste donne peruviane sono analfabete o con un basso livello di istruzione, provenienti dalle zone rurali, che spesso partoriscono da sole. 



Questo numero di decessi però è sottostimato perché alcune donne delle campagne non possiedono documenti di identità e le loro esistenze possono tanto iniziare quanto finire, ignorate dagli occhi dello Stato. Spesso le donne campesine non accedono ai servizi sanitari per varie ragioni, anche culturali. E qui si introduce l’altro problema scottante, quello della scolarizzazione femminile nelle comunità rurali.
Nel centro abitato di Chamis, ad esempio, che si trova a poco più di un’ora a piedi da Cajamarca e dove ci sono le lagune minacciate dalla miniera CONGA, un proyecto ciudadano (vedi qui  video del proyecto ciudadano) portato avanti dai ragazzini della scuola secondaria ha evidenziato che su 155 donne tra i 12 e i 21 anni, 60 non vanno a scuola. Il progetto ciudadano ha mirato a sensibilizzare la società su questo tema, analizzando le norme relative a tale problematica e andando a parlare con le istituzioni competenti. 
Che dire di Cajamarca? L’idea che mi sono potuta fare è ancora molto superficiale. Fino ad adesso ho avuto modo di conoscere personalmente uomini molto gentili e rispettosi. Per strada però spesso dalle macchine suonano o “fissano” le donne, specialmente le gringhe, e i più sfacciati schiamazzano qualcosa che spesso non capisco. Se all’inizio rimanevo indifferente, ora mi viene sempre più spontaneo rispondere per le rime, e a volte ringrazio di avere le mani occupate in modo da non esibirmi in vari gesti “eloquenti”. Per strada si possono incontrare donne vestite “all’occidentale” (jeans, tacchi, maglietta, trucco, occhiali da sole) e sullo stesso marciapiede o nello stesso  ufficio (ad esempio al Banco Nacional) campesine con grandi sombreros di foglie di palma strette fini fini, con gonne fino al ginocchio, camicette colorate e maglioncini di lana.



Attaccate alle loro schiene, le manteles, stoffe variopinte spesso realizzate a mano che fungono da zaino o porte-enfant a seconda delle circostanze, in un’arte di equilibrio tra corpo di bimbi, lembo di tessuto e zona lombare della madre. 


Portano i capelli lunghissimi, neri, lucidi, legati in una treccia che percorre dritta e decisa tutta la schiena e che si muove seguendo i sobbalzi del corpo. Le scarpe sono sorta di mocassini scuri. Durante le nostre escursioni in montagna, abbiamo potuto notare che il loro abbigliamento non cambia: non è un vestito da festa, ma è l’abito da tutti i giorni, nonostante sia così variopinto e potrebbe sembrare troppo bello per il lavoro nei campi. Le vedo così belle, così donne. Così meravigliosamente colorate, con quelle gambe forti, tornite dai tanti passi. Non riesco a pensare forme migliori su quei bei cerros verdi, spuntare da quelle case di adobe.


Eppure qui in città sono come “di serie b”. Per la strada alcuni uomini si arrogano il diritto di trattarle poco cortesemente. Le campesine svolgono i lavori più umili: donne delle pulizie, cuoche, venditrici al mercato, spesso agli angoli delle strade. In Perù esiste un forte razzismo interno. Gli abitanti della città discriminano coloro che vengono dalla selva o dalla sierra. Ciò potrebbe ricordare un po’ il fenomeno dell’integrazione degli italiani meridionali nel nord Italia.
Nel palazzo della regione, Marina mi ha fatto notare che le campesine erano sedute per terra e le altre donne, invece, avevano un posto sulla sedia di velluto rosso.


Tra le giornaliste ce n’era una che pare si vesta sempre con abiti tradizionali, ovunque vada, nonostante faccia un lavoro molto diverso dai mestieri campesini, non ha voluto rinnegare le sue tradizioni.

Ieri con Jennifer abbiamo comprato il cappello tradizionale. Ce ne sono vari tipi, di diversi diametri e che richiedono lavorazioni diverse. I nostri sono di palme intrecciate finissime e ciascuno ha richiede 2 mesi di lavoro. Qui il sole è molto forte e in più c’è chi dice che il buco dell’ozono sia proprio sopra il Perù e quindi le radiazioni solari sono pericolosette. Necessitiamo di un copricapo per quando ci rechiamo nelle scuole rurali, ma abbiamo riflettuto a lungo se fosse il caso o meno di prendere proprio quel cappello. Che possa sembrare improprio che esso sia indossato da due gringhe? Costa molto, dai 250 soles in su (il nostro 400 soles), che qui è una fortuna. Ma dicono che duri tutta una vita. Per tentare di risolvere i nostri dubbi abbiamo chiesto a delle professoresse peruviane che ci hanno detto che fa piacere ai campesini che qualcuno della città si metta il loro cappello tipico, solitamente snobbato. Noi siamo gringhe, ma siamo anche Donne, che ci stanno provando a entrare in queste terre cercando di sollevare meno ondine possibile. Sappiamo di essere diverse, ce l’abbiamo scritto su ogni vestito, oggetto, accento, pelle e gesto. Però vogliamo essere qui, insieme. Testimoniare che si può’ essere Donne anche così, con un cappello che vuole essere un modo per dire: Ode alla vostra tecnica e alle vostre mani esperte: Dove il Quechua Decathlon non può arrivare, arriva il Quechua Andino! 

3 commenti:

  1. Sempre bellissime parole che mi fanno sentire come se fossi lì con te. E' sempre un onore essere una Donna, ricca o povera, di città o di campagna, "gringa" o no (mi piace la parola gringa! mi sa di tosto, anche se so che non c'entra nulla!! XD )... Tieni sempre alto questo valore,e trasmettilo come solo tu sai fare: con i piccoli gesti, con gli sguardi e con i sorrisi... e soprattutto sfoggiando con fierezza il tuo nuovo cappellone (VOGLIO UNA FOTO!!!!!!). Ti voglio bene!

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  2. Eppure qualcosa scricchiola... qualcosa di cui un po' abbiamo giá parlato...
    ma che non si riesce a capire bene... la cui problematizzazione é forse uno dei contributi che, vivendo e operando laggiú, potete portare a tutti.
    Provo a dirlo così: nella notte dei desideri o nella mente dei volontari di Aspem, qual é la Cajamarca che si vorrebbe aiutare a costruire?

    Vogliamo che le campesine abbiano anche loro delle sedie di velluto rosso o che le altre donne si mettano a sedere per terra come le campesine?

    Traducendo, le sedie per le campesine sono la garanzia che tutti possano accedere a servizi sanitari, istruzione, mezzi di informazione,...
    Questi appaiono come diritti sacrosanti e innegabili.
    Ma subito accanto vive quell`altra intenzione, desiderio, volontà che é di dire alle donne moderne : ma guardate che donne! quelle campesine che faticano e vivono nella loro terra sulla quale hanno ancora la malizia di sedersi, che portano ogni giorno i colori della festa.
    Chiedere alle donne moderne di sedersi per terra significa dare vera dignitá alle campesine, quella dignitá che non é solo la semplice e spesso ipocrita "tutela delle diversitá", ma é elevare al rango di valore e quindi di esempio un modo di essere radicato nei luoghi e nella storia.

    Anche questa seconda richiesta ci sembra importante ma le due intenzioni possono convivere? Intendo, quale modernitá stiamo proponendo a queste donne, e quindi in veritá alle loro propaggini, le loro figlie?
    Saranno esse campesine o vestiranno blue jeans? Avranno un lavoro moderno in un paese un po' piú sviluppato, avranno il tempo per tenere i figli sulla schiena per vestirsi in maniera colorata sul posto di trabaglio ?

    Prima ancora che l'immigrazione meridionale e veneta nel nord ovest dell'Italia questi racconti mi ricordano le migrazioni di inizio secolo, quando gli abitanti delle valli, i montanari, si stabilizzarono pian piano nelle cittá, quelle cittá in cui fino ad allora scendevano solo nei mesi invernali per fare lavori umili, come gli stagnini, calderai riparatori di pentole.
    Oggi di quelle comiunitá montane é rimasto ben poco, siti turistici per cittadini intorpiditi e le tradizioni raccontate nei musei. E'successo che quei montanari sono scesi nelle cittá per garantire un futuro migliori ai loro figli, perché potessero studiare affinché non diventassero a loro volta poveracci, esclusi, emarginati.

    Ci aggiriamo per il mondo spinti dalla voglia di miglioralo, di andare oltre gli errori del passato, e allo stesso tempo siamo voltati indietro a celebrare qualcosa che ci appare di valore e che si sta perdendo.
    La nostra corsa lanciata é dilaniata da una confusione programmatica.
    Vorremmo che le campesine avessero il posto di velluto garantito ma che poi scegliessero di sedere ugualmente per terra.

    Di certo dobbiamo evitare in tutti i modi il conservatorismo, le riserve, razzismo mascherato che rinchiude la diversitá mentre la esalta. Cosí scriveva(traduzione mia) uno studente portoghese negli Stati Uniti degli anni 70: Gli indios oggi sono fantasmi che passeggiano nella loro alienazione, rigettati dal presente, riservati nelle riserve - come antenne della televisione - come conserve.

    Ti chiedo, Chiá, cosa vedi? E'possibile che le campesine abbiano la dignitá che spetta loro senza che debbano cambiarsi d'abito ? Saranno i loro vestiti ancora indossati con naturalezza o saranno solo piú fabbricati per il loro valore simbolico o per la vendita turistica ? La giornalista é una stravagante forzatura.

    Puó darsi che si debba solo abbandonare l'atteggiamento decadente, preservare la memoria e aiutare chi chiede qualcosa di piú di quello che ha... anche se questa persona, con quello che giá possiede, ci appare come una goccia di splendore.

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  3. I colori sgargianti delle vesti, le gote sorridenti,il contatto con la terra sono parte di una vita di fatica e di miseria, di dignità e fierezza. Ogni esistenza porta in seno le sue contraddizioni e la sua unicità di bellezza e sacralità. Non sta a noi arrogarci il diritto di volerla mutare ma solo la gioia di poterla conoscere, condividerne un pezzo di cammino accettando di contagiarsi reciprocamente nei profondi modi di interpretare il proprio quotidiano. Chiaretta continua a gioire del qui (lì) ed ora cogliendo le sfumature, le diversità e le tante realtà che rendono simili persone così apparentemente diverse. I pensieri e gli stimoli che tu ricevi da questi incontri sono e saranno volano di cambiamento per il tuo /nostro modo di pensare ma anche daranno l'opportunità a chi ti/vi incontra di provocare ugualmente idee nuove e cambiamento. E' questo il bello del cooperare magari si darà a loro l'opportunità di non compiere gli stessi errori del nostri mondo così detto progredito. Un grande Grazie di condividere con tutti noi ciò che stai vivendo con entusiasmo, impegno ed in punta di piedi. Sta esplodendo la primavera: violette, primule, margherite rallegrano i prati; anche qui i colori fanno festa. Un abbraccio Paola.

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